Per le “madamin” più delicate che non possono sopportare l’odore dell’aglio, a Torino si prepara tuttora la “Salsa Tartufata”, una signorile variante della Bagna Caoda, nella quale si intingono cardi crudi, sedani e anche peperoni. E’ sempre a base di acciughe, olio fine e burro, però al posto dell’aglio si mettono i tartufi bianchi, tagliati sottili. Questa ricetta è stata dettata da Giovanni Vialardi, cuoco della corte sabauda al servizio prima di Carlo Alberto e poi di Vittorio Emanuele II, e autore del “TRATTATO DI CUCINA PASTICCERIA MODERNA E CREDENZA”, pubblicato nel 1854 e considerato il testo classico della cucina Piemontese.
Quasi tutto è cambiato nel turbinare degli avvenimenti e nel mutare dei gusti, ma quel vasto ricettario è rimasto come un simbolo della gastronomia subalpina che non vuol cedere ai ricatti del “già pronto” e della pressapochistica fretta, per mantenere intatta la sua fisionomia, insieme gentile e regale. Difatti la gente Torinese continua a testimoniare la propria aspirazione a vivere col conforto di nobili e saggi ideali anche attraverso la cucina, pur se la “credenza” cioè la tavola apparecchiata, è scesa a più miti consigli e non è più dominata da decine di preparazioni da mettere in “bella vista”.
Però Torino che ha avuto il suo Artusi nel Vialardi e tanti altri cuochi prestigiosi, tiene ancora in auge, per esempio, la rinomata “Fricia”, dalla quale ha preso avvio il fritto misto all’italiana, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. Né va dimenticato il capitolo dei dolci, nei quali Torino eccelle, avendo dato all’Europa, Svizzera compresa, la ricetta del cioccolato. Sono ancora tanti i nomignoli gentili corrispondenti ad altrettanti tipi di cioccolatini: “Brut e Bun, Cremini, rumini”.
La pasticceria del centro storico Sabaudo è rimasta la stessa dei tempi di Guido Gozzano, quando veniva accompagnato dal “Latte di Vecchia”, dal “Ratafià di ciliege” o dal “Rosolio di Rose”.
Per quanto riguarda l’accusa di “francesismo” rivolta alla cucina piemontese in genere, va rilevato che Torino si è sempre tenuta fuori dal servilismo delle imitazioni, rifiutando ogni sorta di “barocchismo” e mantenendo soltanto le sue salse tradizionali, create in casa. Ha invece saputo mettere a buon frutto quello scambio continuo di esperienze tra la cucina francese e quella piemontese iniziato fin dal 1046, quando Adelaide, marchesa di Susa, andò sposa a Oddone di Savoia. Tanto per fare un esempio i Torinesi, vanno giustamente fieri dei loro inconfondibili agnolotti, dei loro risotti speciali, piatti sconosciuti in Francia.
Per il ripieno di agnolotti, la ricetta più seguita è quella indicata da Giovanni Operzo, forse il cuoco piemontese contemporaneo di maggiore notorietà che, con i suoi molti seguaci, tiene vivo il blasone di una scuola illustre. Occorrono: carne di vitello e di maiale, rosolata con cipolla, rosmarino, aglio e salvia; inoltre, prosciutto crudo, cervella e lattuga lessata; il composto va tritato e mescolato con uova e formaggio grattugiato, panna e noce moscata. Gli agnolotti o agnellotti si fanno in brodo o si mangiano asciutti cotti ugualmente nel brodo anziché nell’acqua.
E’ importante stabilire che Torino non basa la sua cucina soltanto sullo schema nobiliare, ma ha saputo accogliere tutti i più schietti suggerimenti provenienti dalla borghesia e dal popolo. A quanto sembra, Torino vanta la scoperta dello zabaglione o “Sambajon”, il cui nome deriverebbe da San Giovanni Baylon, protettore dei pasticceri e venerato nella chiesa di San Tommaso.
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